Categoria: Psicologia

Maturità significa cercare soluzioni e non colpevoli

Non c’è problema tanto tremendo da non poterci aggiungere un po’ di senso di colpa e farlo diventare ancora peggiore.
(Bill Watterson)

Ricordate quando eravate bambini? L’infanzia è un periodo meraviglioso, ed è per questo che vorremmo sempre tornare indietro e proviamo sempre nostalgia per questa tappa. È il momento in cui scopriamo il mondo e, allo stesso tempo, ci sentiamo protetti dagli adulti.

Nell’infanzia e nell’adolescenza, sono i nostri genitori o tutori che hanno il dovere di proteggerci, di soddisfare le nostre necessità e, cosa non da poco, di prendere le decisioni al posto nostro. È per questo che crescere è un esperienza agrodolce; perdiamo le comodità e la sicurezza, ma guadagniamo qualcosa di estremamente importante: la libertà.

mano bambino e adulto

Con il passare degli anni, progressivamente prendiamo in mano le redini della nostra vita. La prima cosa che facciamo è lavorare, per farci carico dei nostri bisogni fondamentali; ma ci sono altri aspetti dei quali dobbiamo responsabilizzarci: i nostri legami affettivi, ad esempio, o la nostra salute mentale.

È il modo in cui gestiamo questa responsabilità che segna la differenza tra crescere e maturare. Il tempo passa inesorabilmente e tutti cresciamo, ma il modo in cui ci responsabilizziamo delle nostre emozioni ci permetterà di affermare che, oltre a crescere, siamo maturati.

Maturare è imparare a trovare la soluzione e non il colpevole

Prendere delle decisioni implica sperimentare emozioni relazionate con la paura di sbagliare e con l’incertezza. Tant’è che a volte ci blocchiamo e ci è molto difficile scegliere una strada piuttosto che un’altra.

Ciò che è sicuro è che tutti commettiamo degli errori, parte del processo di apprendimento. Ricordate quando stavate imparando a contare a scuola? Inizialmente era complicato e commettevate molti errori, ma con la pratica contare diventa un’abilità basilare.

Assumersi la responsabilità di aver sbagliato comporta un complesso processo di riflessione e analisi dei fatti, e per questo a volte è più facile cercare motivazioni esterne che giustifichino i nostri erroriE proprio qui che entra in gioco la colpa. Quando abbiamo un problema, la nostra mente si crogiola nella ricerca  di un colpevole.

A volte, ad esempio, quando sbattiamo contro un qualsiasi oggetto, diamo la colpa allo stesso di trovarsi in mezzo ai piedi. Non vi è mai successo? Camminate distratti per il corridoio e improvvisamente andate a sbattere contro un oggetto che non doveva essere lì, facendovi male al piede. Senza pensarci direte “Maledetto oggetto”, non doveva stare lì.

È naturale, la frustrazione ha bisogno di un colpevole. 
 Condividere

Tuttavia, cosa succede con gli ostacoli che incontriamo sulla nostra strada, quando sono qualcosa di molto più importante che un oggetto dimenticato per sbaglio in corridoio? Potrebbe trattarsi di un esame che continuate a non passare e che avete preparato diverse volte oppure che non vi abbiano rinnovato il contratto di lavoro, che abbiate problemi a comunicare con il vostro partner o che vostro padre si arrabbi con voi quando esprimete la vostra opinione.

Se non riflettiamo, se ci lasciamo trasportare dalle emozioni, la colpa è una specie di neon, che si illumina improvvisamente nella nostra mente. Fermatevi un momento a pensare in cosa aiuta la colpa? 

Quando incolpiamo qualcuno o noi stessi di quello che succede, ci stiamo concentrando sulle nostre emozioni e atteggiamenti negativi: veniamo pervasi dall’ira e dalla frustrazione, proviamo tristezza o rancore, e non andiamo avanti. Per farla breve, siamo infelici.

ragazza incolpata da tutti

Tuttavia, se oltrepassiamo queste emozioni negative e andiamo avanti, ci renderemo conto che invece di cercare un colpevole, esiste qualcosa di molto più utile: intraprendere un’azione che ci aiuti a cambiare la situazione. Se cerchiamo delle soluzioni, manderemo a noi stessi un messaggio, ovvero che se qualcosa è andato male, possiamo provare a rimediare e lavoreremo per risolvere la situazione.

Preoccupiamoci  più di essere padri del nostro futuro che figli del nostro passato.
(Miguel de Unamuno)

Sicuramente ricorderete una situazione simile a questa: siete vittime di un’ingiustizia, ad esempio, siete stati bocciati ad un esame che credevate sarebbe andato bene. Vi sentite male ripensando nella vostra testa alla situazione e ve la prendete con il professore o con voi stessi. Cercate un colpevole.

Siete stanchi di ripensare a quanto è appena successo, è qualcosa che appartiene al passato e non può essere modificato. La colpa ci blocca. 

Tuttavia, se cambiate atteggiamento e decidete di mettervi a studiare meglio le parti in cui probabilmente non eravate preparati, le vostre emozioni cambieranno. 

La prossima volta che qualcosa non andrà bene e che vi metterete a cercare dei colpevoli, pensate che la cosa migliore che potete fare è voltare pagina. Le emozioni negative sono inevitabili, ma se cerchiamo soluzioni invece che colpevoli, ci renderemo conto che sono cose passate e che bisogna continuare ad andare avanti per raggiungere i nostri obbiettivi.

Categoria: Psicologia

DIFFICILE RUOLO DEL GENITORE

“Com’è andata oggi a scuola?” “Bene” “Cos’hai fatto?” “Niente”

“Com’è andata oggi a scuola?” “Bene” “Cos’hai fatto?” “Niente”

Quante volte i genitori si sentono intrappolati in questa conversazione con i propri figli?

In quelle risposte così telegrafiche spesso si nascondono le peggiori paure dei genitori, prima tra tutte quelle di essere di colpo esclusi dal mondo del figlio di cui fino a qualche tempo prima erano i sovrani indiscussi; i supereroi.

I genitori spesso temono che dietro a quel “niente” ci siano chissà quali oscuri segreti da non poter svelare ma la realtà è ben diversa. Difatti, quella è una risposta che azzittisce e crea un mondo privato di cui l’adolescente fa parte ma il genitore comincia a sentirsi escluso.

Ma cosa si nasconde dietro a questo? In realtà tutto.

Perché in quelle 6-7 ore passate a scuola non è che non sia successo niente, al contrario, proprio di tutto. Forse un genitore a sentirsi dire “di tutto” potrebbe chiedersi o chiedere “Ma come? E non hai seguito le lezioni?” oppure cominciare a fare troppe domande che potrebbero risultare agli occhi dei propri figli come invadenti.

In quelle ore è sono successe tantissime cose, perché mentre i docenti li portano in viaggio tra le diverse materie questi si innamorano, litigano, si lasciano, si innamorano di nuovo, litigano con la migliore amica che gli ha soffiato il ragazzo per poi fare pace. Insomma, succede davvero di tutto.

E come fanno i nostri giovani a raccontarcelo in quel breve momento di attenzione che gli concediamo? Perché raccontare quel “tutto” vorrebbe dire mettersi in gioco, svelare sentimenti, portare fuori argomenti che alle volte si può non voler sentire, alle volte non si ha tempo di sentire. Quante volte poniamo la domanda ai nostri ragazzi mentre li stiamo portando a casa da scuola o verso la palestra in cui svolgono attività con magari in mente di dover anche recuperare il fratello minore, un telefono che squilla e mille cose da fare?  Quindi come biasimarli? I genitori stessi parlano con i propri figli? Forse alla base di questo niente c’è proprio un’incomunicabilità che non è solo generazionale, ma anche fatta purtroppo di assenze e lontananze che non ci rendiamo nemmeno conto di creare.

Se si chiede ad un ragazzo di 15 anni perché non parli con i propri genitori la risposta è semplice: “tanto non capirebbero” e nonostante i genitori di oggi per certi aspetti si sentano ancora giovani e un po’ adolescenti forse dimenticano che è proprio ciò che pensavano loro rispetto ai propri genitori.

È insito nella figura dei genitori quello di essere un po’ distanti dai propri figli che vanno si capiti e accolti, ma non per questo deve venire meno il ruolo genitoriale che imponga dei limiti. L’adolescente i limiti dice di non volerli, ma infondo li chiede perché anche questi gli servono per definirsi.

Forse li chiede indirettamente proprio in quel niente, in cui è lui a mettere il limite, a dire “da qui comincio io”.

Ma cosa può quindi fare un genitore che si trova dietro a quella porta che gli viene sbattuta in faccia? Non gli rimane che aspettare proprio dietro a quella porta che ogni tanto si apre per chiedere aiuto e sostegno. Non gli rimane infondo che sopravvivere a questa fase contorta del proprio figlio, certo che finirà. Da lì ne uscirà un adulto e molto di ciò che sarà dipenderà da quanto i genitori abbiano avuto voglia e pazienza di accogliere e sostenere ogni apertura di quella porta prima di vederne uscire una persona nuova che non è più il proprio bambino, ma un nuovo adulto pronto a creare nuovi legami nel mondo.

Anche la fata turchina avrebbe voluto tenere per sempre con sé il suo Pinocchio ma ha dovuto lasciarlo andare, farlo crescere, per farlo diventare finalmente un bambino vero.

Categoria: Psicologia

Per crescere bambini felici serve consapevolezza

Ogni genitore occupa una funzione di guida fondamentale per una crescita felice, perché il bambino ha bisogno di essere accompagnato nel viaggio alla scoperta della sua indipendenza con lungimiranza e fiducia. Spesso ci comportiamo con i più piccoli seguendo l’umore del momento o convinzioni che non derivano da una reale analisi dei fatti, bensì da una nostra personale esperienza di vita.

I genitori sono prima di tutto persone, con le proprie difficoltà, limiti e difficoltà, tuttavia per gestire la responsabilità di un figlio in maniera costruttiva è importante mettersi in discussione, senza fermarsi all’apparenza o a ciò che ci hanno insegnato riguardo l’infanzia. Non esistono manuali per diventare genitori perfetti: leggere e informarsi può aiutare, tuttavia ogni bambino è, e rimane, un essere umano unico, con un carattere e un approccio alla vita assolutamente personale. Ecco perché certe regole possono rivelarsi utili con un figlio e, al contrario, risultare improduttive con un altro.

L’ostacolo più grande? Non cedere al nervosismo del momento: quando la rabbia è in agguato, meglio prendersi un momento di silenzio e ritornare sulla discussione con la mente calma e le idee più chiare. Questa è la modalità consigliata anche nei casi in cui i capricci si fanno sentire. Urlare più forte non è la soluzione, al contrario può accentuare la carica di aggressività e, nel tempo, trasmettere l’idea che i momenti di contrasto si superino alzando la voce. No, sbagliato: discutere senza litigare è possibile, anzi auspicabile. Imparare a esprimere le proprie emozioni costituisce un momento di vitale importanza per la crescita.

Manifestare i propri bisogni attraverso le emozioni aiuta a diventare adulti più consapevoli e in grado di provvedere alle proprie necessità senza sensi di colpa verso gli altri. Aiuta tuo figlio a essere in contatto con le sensazioni che prova a un livello profondo e, anziché usare esclusivamente le domande dirette, rendi quotidiana l’abitudine di raccontarsi e ascoltarsi, reciprocamente. L’ascolto autentico trasforma il nucleo familiare in un luogo di condivisione di sé, fiducia, scambio.

Le emozioni pensanti? Hanno diritto di esistere… e di essere espresse. Evita di bloccare un bambino con frasi come “Se piangi la mamma è triste”: quando diciamo parole come queste, la rabbia o la tristezza non scompaiono, ma diventano un peso invisibile in grado di schiacciare. Un figlio deve sapere che all’interno della famiglia è possibile parlare di tutto, con apertura e curiosità, senza tabù, dal sesso alla pedofilia. Perché, purtroppo, anche di questo c’è bisogno. Crescere un figlio significa renderlo consapevole dei pericoli che esistono nel mondo, aiutandolo a sviluppare lo spirito critico e l’autostima che servono a camminare con le proprie gambe sapendo di potercela fare.

Categoria: Psicologia

IL TRAUMA PSICOLOGICO E LE SUE CONSEGUENZE

Un crescente numero di persone si confronta nella propria vita con eventi altamente stressanti che possono rappresentare veri e propri traumi. Il confronto con tali esperienze traumatiche può lasciare ferite che si rimarginano o segni indelebili che possono cronicizzarsi, compromettendo la normale funzionalità di un individuo.

Eventi traumatici versus significati traumatizzanti

Quando si parla di “trauma psicologico” ci si riferisce agli effetti sulla mente e sul comportamento prodotti da un evento fisico, psicologico o sociale altamente stressante.
I primi studi sugli effetti cronici post-traumatici ritenevano il trauma psicologico come la conseguenza di un evento traumatico, ossia di un agente patogeno costituito da una condizione estrema collocata idealmente al di fuori delle esperienze umane comuni (DSM III).
Secondo questa prima discriminazione specifica degli eventi in grado di generare un trauma psicologico, venivano ritenuti “eventi traumatici” soprattutto diversi accadimenti di natura obiettivamente grave e straordinaria, quali violenze fisiche, abusi sessuali, disastri naturali (terremoti, alluvioni, ecc.), disastri tecnologici (incidenti chimici, nucleari, danni energetici, ecc.), guerre, torture, incidenti e rapimenti.

Ben presto, tuttavia, le osservazioni cliniche hanno mostrato che esistono delle persone che presentano chiaramente sintomatologie post-traumatiche pur non essendo stati esposti ad eventi oggettivamente estremi. Ciò ha generato la caduta dell’assunto secondo il quale “è una situazione grave che produce una reazione estrema”, anche grazie all’osservazione di opposti casi di individui esposti a stress apicali senza la manifestazione di segni di trauma psichico.
In tal modo, il criterio principale che permette di circoscrivere le condizioni in grado di generare traumi psicologici è stato rivisitato e collegato a fattori soggettivi, piuttosto che alle caratteristiche oggettive degli eventi affrontati. Pertanto, si è evidenziato che la stessa sindrome post-traumatica può essere generata da una ampia gamma di situazioni la cui gravità non è insita nell’evento, bensì derivante dall’ “interpretazione traumatizzante” dello stesso e dai conseguenti vissuti emotivi che ne derivano.
A tal proposito possono essere attribuiti significati traumatizzanti a qualsiasi evento negativo in cui una persona vive direttamente o come testimone di uno o più situazioni connesse alla morte reale o temuta, ovvero in cui sperimenti una minaccia per la propria o altrui incolumità fisica, tale da mettere a dura prova il senso di sicurezza psicologica. Il vissuto di timore o danno, derivante dall’interpretazione soggettiva, e spesso inconsapevole, dell’evento affrontato si accompagna a risposte di intensa paura, di impotenza e di orrore (DSM IV). Questa visione più ampia dei fattori traumatizzanti permette di comprendere perché spesso i sintomi di un disturbo post-traumatico possono comparire anche in seguito a situazioni naturalmente presenti nella vita umana, quali malattie o lutti, nel corso delle quali la percezione soggettiva può diventare traumatizzante (March J.S., 1993).

Uno shock al crocevia: possibili reazioni ad un trauma
Sono state individuate diverse possibili strade che possono essere seguite dopo lo scontro con un evento scioccante: esse costituiscono i diversi esiti post-traumatici.

La resilienza rappresenta il percorso post-traumatico più favorevole in cui si evidenzia una tendenza a mantenere un equilibrio stabile nel funzionamento, nonostante dei possibili ed umani malesseri transitori. Questa importante capacità di conservare un certo grado di integrità e salute psicofisica di fronte agli stress e ai traumi è paragonabile ad una reazione psicologica efficace simile a quella messa in atto fisicamente da parte del sistema immunitario quando il corpo combatte e sconfigge un attacco infettivo (Oliviero Ferrari A., 2003).

Una sintomatologia temporanea post-traumatica parziale, il cosiddetto disagio sottosoglia, o un vero e proprio Disturbo Acuto da Stress, possono essere considerati frequenti e transitori in seguito ad eventi ad alto impatto emotivo, soprattutto in seguito al confronto con i tradizionali “eventi oggettivamente traumatici”. In ogni caso, spesso l’iperattivazione emozionale che può nascere da situazioni anche ordinarie può generare sintomi di trauma psicologico passeggeri che tendono ad una guarigione o recovery, in gran parte dei casi, nell’arco di quattro settimane.
Tale guarigione generalmente è connessa ad una rapida e positiva rielaborazione della situazione affrontata, una possibilità che è legata a risorse psicologiche, attivate spesso anche grazie al supporto sociale e all’aiuto professionale, che è estremamente importante predisporre in modo preventivo quando gli eventi sono oggettivamente disastrosi e ad elevata influenza psichica.

In altre situazioni invece il decorso è profondamente diverso e una persona non è sempre in grado di mobilitare le proprie risorse personali o di attingere a quelle familiari e sociali. In tali casi si possono sviluppare, in modo cronico a partire dalle forme acute o con impatto ritardato a partire da iniziali evoluzioni positive, dei sintomi caratteristici del cosiddetto Disturbo Post-traumatico da Stress che si configura come una comparsa di sintomi peculiari nel breve o lungo termine o un perpetrarsi per oltre un mese della forma acuta di disturbo post-traumatico (DSM IV TR).
In questa problematica, connotata da una costellazione di sintomi che accompagnano le forti note di ansia, sono presenti altre 3 caratteristiche sintomatiche che accompagnano l’esposizione all’evento traumatico (che costituisce il criterio diagnostico di base), ovvero:

  • la presenza di una o più modalità con cui l’evento patogeno viene rivissuto;
  • la presenza di comportamenti di evitamento di stimoli associati al trauma insieme ad una ridotta recettività emotiva;
  • la presenza di uno o più segni di iperattivazione del Sistema Nervoso Centrale (iperarousal).

Per ciò che concerne la prima caratteristica elencata, quella che costituisce il secondo criterio di diagnosi, essa si può manifestare attraverso ricordi ricorrenti e intrusivi del trauma, oppure mediante sogni ricorrenti sul tema o attraverso la sensazione che l’evento terrorizzante si stia per ripresentare (es. deja-vu, illusione, allucinazione, flashback). Similmente si possono manifestare una forte angoscia o reazioni psicofisiologiche sgradevoli in rapporto al confronto con stimoli interni o esterni che simbolicamente sono connessi all’evento traumatico o al suo anniversario, dal momento che è molto facile che avvenga un condizionamento diffuso di situazioni simili a quella che ha originato il disagio mediante un meccanismo di generalizzazione della reazione d’ansia.

Per quanto attiene alla seconda caratteristica, che definisce il terzo criterio diagnostico ufficiale, la tendenza ad eludere stimolazioni connesse al trauma si attua spesso o mediante l’evitamento di pensieri e sentimenti intrusivi o sviluppando forme di amnesia psicogenetica focalizzate sull’evento traumatico. L’intorpidimento emotivo invece può manifestarsi attraverso diversi segni di quella che viene definita “paralisi psichica” o “anestesia emozionale”, che genera diminuzione di interesse per le attività prima ritenute piacevoli, distacco o estraneità verso gli altri con difficoltà a mantenere le relazioni affettive e perdita di speranza relativamente al proprio futuro affettivo e lavorativo (Galeazzi A., Meazzini P., 2004).

Infine, la terza caratteristica sindromica, quella che si riferisce al quarto criterio diagnostico, è evidenziata da sintomi di aumento dell’arousal quali disturbi del sonno, della concentrazione, irritabilità e rabbia improvvisa, ipervigilanza e crisi di attacchi di panico frequentemente connesse ad elementi originariamente traumatici.

Al di là dei predetti sintomi più comuni, spesso si osservano altri sintomi di somatizzazione, di dissociazione, di depressione prolungata, nonché disagi espressi in vario modo che simbolizzano una coazione a ripetere il danno attraverso automutilazioni e rivittimizzazione, entrambe fortemente connesse a due stati emozionali spesso presenti nelle condizioni di disagio post-traumatico: il senso di colpa e la colpa da sopravvivenza.

Sono stati individuati dei fattori di rischio che predispongono all’insorgenza e alla cronicizzazione di un disturbo post-traumatico che sono rappresentati principalmente da alcuni elementi che si rinforzano reciprocamente tra loro, quali:

  • le caratteristiche dell’evento traumatico in sé (es. il prolungamento dell’esposizione e la gravità, nonché la sua presenza in concomitanza rispetto ad altri problemi personali);
  • le caratteristiche della persona colpita dal trauma (es. struttura della personalità, pessimismo, locus of control esterno, autostima bassa, storia personale difficile con presenza di perdite precoci, condizioni di salute negative e basse risorse cognitive);
  • i fattori ambientali (es. scarsa presenza di risorse amicali, di possibilità di ricorrere a supporti professionali adeguati per il trattamento immediato dei sintomi più acuti).

Spiegare, prevenire e superare i disagi legati al trauma
I tentativi di spiegare come si produce un trauma psicologico e come, di conseguenza, si produce un disturbo post-traumatico sono stati molteplici.
È interessante innanzitutto notare come alla base del problema ci sia un doppio meccanismo di apprendimento delle reazioni al trauma: da un lato si ha un condizionamento classico che sensibilizza ai contesti simili a quelli dell’evento traumatico e dall’altro si aggiunge un condizionamento operante che subentra quando comincia l’evitamento di situazioni connesse al trauma e che, tendendo a ridurre l’ansia, agisce da rinforzo negativo. Il modello di sviluppo dei sintomi segue quindi uno schema bifattoriale e l’evitamento rappresenta un modo per gestire l’ansia che involontariamente costituisce un ostacolo al processo di guarigione, dal momento che non permette l’esposizione agli stimoli condizionati, che è una condizione necessaria per estinguere le risposte emotive condizionate che sono il nucleo patologico (Mowrer O.H., 1960).

Dal punto di vista cognitivo sembra che l’evento traumatico sia in grado di attivare una condizione di stordimento definita “crying out”, alla quale segue un sovraccarico di informazioni che rende difficile o impossibile conciliare i dati connessi al trauma con gli schemi cognitivi pre-esistenti.
Più precisamente la tendenza a rigettare i nuovi contenuti traumatici sarebbe un tentativo fallito di ristabilire l’equilibrio e una consonanza cognitiva tra vecchi schemi cognitivi e nuovi dati angosciosi rifiutati. Pertanto, sembra che spesso il trauma insorga in relazione all’azione di due processi contemporanei: il diniego dell’evento e la sua ripetizione compulsiva che tendono a opporsi fra loro per gestire l’angoscia, ma che interferiscono con la sana funzionalità dell’individuo (Horowitz M.J., 1986).

Sembra inoltre che esista una componente biochimica che sostiene il cambiamento patologico che si innesca in seguito al confronto con un trauma: si tratterebbe di una modificazione nella produzione di norepinefrina, un neuromediatore attivante, che spiega i sintomi di iperattività e che viene prodotto naturalmente in condizioni di stress ed eccessivamente in condizioni di stress estremo.

Dal punto di vista della prevenzione esistono ormai molti interventi preventivi di psicologia dell’emergenza di provata efficacia, che agevolano l’attivazione di risorse ed una rielaborazione ed integrazione degli eventi affrontati nel contesto della propria storia di vita.

Dal punto di vita dell’intervento sui sintomi acuti e cronici del problema, dal momento che le manifestazioni cliniche e gli effetti del trauma sono eterogenei, sono risultati molto efficaci dei trattamenti integrati personalizzati. Alcuni sintomi che rappresentano dei condizionamenti negativi sono trattati con efficaci metodi di desensibilizzazione che richiedono l’esposizione mentale al trauma e che, per questo, spesso sono evitati a lungo dalle persone con disturbi post-traumatici nel tentativo vano di aspettare un miglioramento spontaneo, attesa che tende a produrre solo la cristallizzazione del trauma rendendo sempre più difficile la sua risoluzione (Giusti E., Montanari C., 2000).
Esistono anche trattamenti centrati sui sintomi somatici di iperattivazione che tendono a favorire la liberazione dell’energia psicofisica che si è imprigionata al momento dell’evento traumatico.
Indubbiamente le tecniche migliori devono favorire nuovi apprendimenti che sostituiscano quelli patologici e una rielaborazione cognitiva ed emotiva dei fatti dolorosi, con l’aiuto anche di metodi che lavorano sulle somatizzazioni che sono spesso presenti e che richiedono un lavoro psicocorporeo.

La trasformazione del trauma in opportunità

Molte persone, reduci da esperienze orribili o che si sono confrontate con prove estremamente dure della vita, hanno mostrato che il trauma può portare con se anche un aspetto forte e potente, rappresentando una forza misteriosa di cambiamento positivo e di crescita personale.
Diversi studi si sono concentrati su tale cosiddetta “crescita post-traumatica” o “post-traumatic growth”, ossia sulla possibilità di arricchirsi e di trasformare un episodio negativo di vita in una fonte di trasformazione positiva, in uno stimolo al miglioramento, attraverso delle capacità che sembrano svilupparsi in stretta connessione con la riscoperta di una capacità di fronteggiare eventi anche molto critici.
Va precisato che questo aspetto positivo che si può riscontrare spesso in concomitanza di un trauma psicologico non corrisponde necessariamente ad un percorso di evoluzione positiva della sintomatologia, ma può coesistere con delle problematiche post-traumatiche, così come con una completa guarigione.
Una caratteristica fondamentale che accomuna tutti gli eventi traumatici in grado di far cambiare positivamente chi li affronta è il loro potere di impatto psicologico, cioè la loro particolare gravità, tale da mettere in crisi il sistema di assunzioni di riferimento della persona.
La capacità di crescere dopo aver affrontato una situazione traumatica è molto più frequente nelle donne e decresce in modo proporzionale con l’aumentare dell’età.

Le aree principalmente coinvolte nella crescita post-traumatica sono tre:

  1. la percezione di sé;
  2. la filosofia di vita;
  3. le relazioni interpersonali.

Con riguardo al primo aspetto, spesso si osservano dei cambiamenti post-traumatici positivi nella consapevolezza di sé, delle proprie forze e capacità, delle risorse interiori con lo sviluppo di un atteggiamento più ottimista verso il futuro e di progetti concreti per raggiungere degli obiettivi di vita. Spesso cresce il senso di efficacia e si manifesta una migliore autostima attraverso le attività che connotano il proprio stile di vita.
È frequente anche osservare un cambiamento nella propria filosofia di vita, con la crescita della dedizione a questioni spirituali nonché una trasformazione degli atteggiamenti nei confronti della vita e della scala di priorità di valori, che nasce da una messa in discussione dei principali temi sull’esistenza umana.
Un altro aspetto che spesso appare rinnovato positivamente dopo l’esperienza traumatica è quello che riguarda la ricchezza dei rapporti con le persone care. Il confronto con elementi negativi della vita, infatti, sembra in grado di far apprezzare maggiormente la semplicità e l’importanza di rapporti più profondi con le persone considerate più care, mentre si allargano le capacità di manifestare con fiducia le proprie emozioni e di apprezzare l’aiuto e la vicinanza degli altri.
Infine, una particolare capacità emotiva che è spesso amplificata dalle esperienze traumatiche è quella di empatia: sembra infatti che la sofferenza insegni a comprendere meglio le altre persone, sostenendo una capacità emozionale che risulta estremamente utile per coltivare rapporti che possono costituire una risorsa fondamentale per il superamento di stati di disagio.

 

Categoria: Psicologia

Significa che l’adolescente non è più bambino ma non è nemmeno ancora adulto.

Adolescenti. Spesso sentiamo dire “l’adolescente non è ne carne né pesce!”….ma cosa significa?

Significa che l’adolescente non è più bambino ma non è nemmeno ancora adulto. Effettivamente non appartiene a nessuna delle due categorie, possiamo definire quindi l’adolescenza come età di passaggio.

Spesso i genitori quando i figli raggiungono l’età adolescenziale (che possiamo orientativamente collocare tra i 13 e i 18 anni) scoprono repentinamente di non conoscere i loro figli, o meglio, di non ri-conoscerli più!

Quelli che erano prima i loro bambini affettuosi e ubbidienti, ora si chiudono nella loro stanza pretendendo la loro privacy, hanno sbalzi d’umore, vivono emozioni forti e intense, preferiscono uscire con il gruppo dei pari piuttosto che con i familiari, si innamorano disperatamente, utilizzano internet e cellulari in modo assiduo e fanno esperienze significative fuori casa chiedendo sempre più libertà.

Quali sono gli ambiti a cui porre particolare attenzione negli adolescenti?

Cambiamento fisico. Il corpo bambino si è trasformato più o meno gradualmente in un corpo sessuato per il quale l’adolescente prova sentimenti ambivalenti: da un lato è un corpo da esibire, dall’altro è un corpo difficile da accettare e da farsi piacere del tutto, la percezione di possedere dei difetti e addirittura delle stranezze fisiche sono all’ordine del giorno. L’adolescente quindi sperimenta il proprio corpo con vestiti, tagli di capelli, tatuaggi, piercing e tanto altro al solo scopo di trovare una propria identità, sia individuale che corporea.
Sviluppo sessuale. I mutamenti che si verificano nel corpo dell’adolescente possono essere al contempo motivo di orgoglio e di imbarazzo. E’ importante che l’atteggiamento dei genitori nei riguardi del sesso sia il più possibile naturale, altrimenti può svilupparsi nell’adolescente imbarazzo e insicurezza.
Gruppo dei pari. I coetanei e le relazioni amicali e d’amore diventano il centro della vita dell’adolescente che usa queste relazioni sia per emanciparsi dalle figure genitoriali, sia per confrontarsi con i suoi pari al fine di trovare una propria collocazione nella società. Il gruppo dei pari detta le regole per potervi essere ammesso all’ interno: decide cosa va bene e cosa no, cosa può provocare vergogna o stima nell’altro, può quindi suscitare grandi emozioni sia positive che negative.
Social network. Oggi i mezzi di comunicazione e di relazione sono in parte cambiati, se prima ci si ritrovava nei cortili e nelle piazze di quartiere, ora ci si relaziona anche solo stando seduti davanti ad un PC o un cellulare. I social network come facebook permettono di giocare con la propria identità e immagine (si pubblicano e commentano fotografie proprie e degli amici), le chat e gli sms danno la possibilità di scambiarsi idee e pensieri senza esporsi eccessivamente. Può capitare che gli adolescenti, alla continua ricerca della propria identità, si rifugino in una identità virtuale.
Sostanze stupefacenti. Droghe, alcol, gioco d’azzardo, cibo (usato spesso per ingrassare/dimagrire o anche per sedare stati di ansia/vuoto) che nella maggior parte dei casi sono fonte di sperimentazione e piacere, in casi estremi possono trasformarsi in vere e proprie dipendenze.
I genitori come possono accompagnare i figli in questa fase?adolescenza

Data la delicatezza del momento i genitori hanno un ruolo fondamentale per i figli, anche se a volte le continue discussioni o l’assenza di dialogo direbbero il contrario.

I genitori dovrebbero “camminare a fianco dei figli” monitorando cambiamenti, stati d’animo e segnali trasmessi verbalmente e non. Dialogando quando i figli ne danno la possibilità. Non dimenticandosi mai che le regole sono essenziali quanto la libertà che si concede: per essere liberi c’è bisogno di confini precisi, soprattutto in questo momento della vita.

Quali sono i messaggi fondamentali da trasmettere ai nostri figli adolescenti?

Puoi avere una tua identità sia personale che sessuale, ma quando avrai ancora bisogno di me, io sono qui.
Puoi esplorare, conoscere e sperimentare i tuoi modi di essere.
E’ importante che tu sia responsabile dei tuoi bisogni, delle tue sensazioni, dei tuoi comportamenti.
Puoi essere come più ti piace.
Quando andrai via da casa, sarai sempre il benvenuto nel momento in cui ritornerai.
Ti voglio bene anche ora che sei cresciuto. Il mio amore ti seguirà ovunque tu vada.
Si ma…che fatica!

L’adolescente mette spesso in discussione le regole imposte dai genitori, questo comportamento ha la funzione di stabilire il limite oltre cui è possibile andare, solo attraverso questa sperimentazione si può percepire il confine entro cui è possibile arrivare. Se questo limite viene trasmesso in termini positivi, la regola assume una connotazione positiva poichè vissuta come protettiva, se viene percepita come ingiusta e persecutoria, violarla diventa un modo per affermare se stessi e definire il proprio potere.
Nonostante i continui tentativi di ribellione, l’adolescente ha ancora bisogno che il genitore continui a svolgere la sua funzione di contenimento: i genitori devono adattarsi ai nuovi bisogni del figlio che cresce e al suo modo di esprimersi e di relazionarsi con il mondo degli adulti.
E’ importante che il figlio senta la fiducia del genitore, ciò gli trasmette sicurezza e aumenta il proprio senso di autoefficacia.

Durante l’adolescenza è molto importante l’uso del dialogo: mantenere un atteggiamento accogliente e pronto all’ascolto, aiuta a prevenire eventuali disagi e a ridimensionare problemi che sembrano insormontabili.

Laddove questo dialogo fosse difficile è opportuno chiedere aiuto nel caso in cui si cogliessero i segnali di un possibile disagio.

Non siete soli!

Esistono servizi, consultori, professionisti privati (psicologi e psicoterapeuti esperti nell’età evolutiva) che si dedicano in modo specifico al mondo degli adolescenti a cui potete fare riferimento per qualsiasi dubbio o domanda (anche on-line)….e per sentirsi un po’ meno soli!

curare gli adolescenti a rimini,problemi degli adolescenti a rimini,cure per gli adolescenti a rimini,psicologo per gli adolescenti a rimini,curare gli adolescenti a riccione,problemi degli adolescenti a riccione,cure per gli adolescenti a riccione,psicologo per gli adolescenti a riccione,curare gli adolescenti a cattolica,problemi degli adolescenti a cattolica,cure per gli adolescenti a cattolica,psicologo per gli adolescenti a cattolica, a san giovanni marignano e misano adriatico

Chi è lo Psicologo…

Lo psicologo ha competenze peculiari per lavorare efficacemente in moltissimi ambiti di vita degli individui, ad esempio: crescita personale (aumentare l’autostima…), benessere psicofisico (gestione dello stress, controllo dell’abitudine del fumo…), clinico (sostegno psicologico, valutazione cognitiva…), sociale (migliorare le relazioni con gli altri…), etc.
Lo psicologo è un professionista della salute che utilizza specifici metodi e tecniche al fine di risolvere un problema presentato da un committente.

Cosa fa lo Psicologo…

Interventi di prevenzione, diagnosi, riabilitazione e sostegno;

Interventi volti alla comprensione e risoluzione delle situazioni in cui le condizioni personali e la relazione con gli altri possono costituire fonte di disagio e di difficoltà;

Interventi volti alla crescita personale: migliorare la comunicazione, l’autostima, la propria qualità di vita, etc…;

Interventi clinici: valutazione e riabilitazione cognitiva (memoria, attenzione, percezione, linguaggio…), e dei disturbi del comportamento, riabilitazione psicosociale, valutazioni cliniche, perizie, diagnosi, etc…;

Interventi volti al benessere psicofisico: cambiamento delle abitudini (fumo, peso, etc…), controllo e gestione dello stress e delle emozioni.

Gli interventi dello psicologo sono rivolti a singoli individui, oppure coppie, famiglie o comunità.

Quando rivolgersi ad uno Psicologo
È utile rivolgersi ad uno psicologo per essere aiutati con colloqui di valutazione e sostegno quando si avverte una situazione di disagio che interferisce con il normale e/ o desiderato svolgimento delle proprie attività di vita (personali, relazionali, scolastiche o lavorative, sociali…).
Lo psicologo è colui che ha conoscenze e strumenti utili per il nostro star bene, per curare le ferite, i traumi e le delusioni della vita; ma anche per aiutarci a scoprire ed utilizzare la ricchezza che è dentro ognuno di noi.
Lo psicologo aiuta la persona a focalizzare meglio i propri pensieri ed emozioni per esprimerli appieno.
Gli incontri hanno una durata di circa un’ora ed hanno una cadenza settimanale.
Frequenza, modalità ed obiettivi sono concordati ed esplicitati sempre assieme, all’inizio e nel corso degli incontri.
La consulenza psicologica è un sostegno e un aiuto a ritrovare ed utilizzare le proprie risorse e potenzialità. Rivolgersi ad uno psicologo sin dai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l’aggravamento di una situazione.

psicologa a rimini, consulenza psicologa a rimini, psicologa a riccione, consulenza psicologa a riccione, psicologa a cattolica,consulenza psicologica a cattolica, psicologa a san giovanni marignano,consulenza psicologica a san giovanni marignano, psicologa a misano,consulenza psicologica a misano adriatico

Disturbo bipolare (bipolarismo): sintomi e cura

L’uso dei sogni in psicoterapia cognitiva

L’introduzione del sogno nel percorso terapeutico rappresenta un prezioso strumento che amplia le possibilità di lavoro del terapeuta: anche in area cognitivo comportamentale sono oggi disponibili modelli di lavoro strutturati e inseriti nelle epistemologie di riferimento, razionaliste e costruttiviste.

L’uso del sogno in psicoterapia è stato un tema da cui la psicoterapia cognitivo comportamentale standard ha preso le distanze, per due motivi. Il primo motivo è connesso alla necessità di distanziarsi dalla psicoanalisi: Freud agli inizi del 900 fa del sogno uno dei punti chiave della teoria psicoanalitica, per cui il sogno è una delle manifestazioni più importanti della vita inconscia.

Il secondo motivo è legato alle difficoltà di un’indagine rigorosamente empirica in merito.

Sulla base degli attuali sviluppi della ricerca sperimentale e con l’emergere delle teorie costruttiviste e l’interesse per lo studio scientifico delle emozioni, si percepisce anche in ambito cognitivista l’importanza dell’attività onirica, in modo particolare nella clinica.

I cognitivisti considerano il sogno come un processo prodotto da un unico sistema cognitivo che opera nelle diverse fasi del sonno, sia in quelle REM che quelle non-REM. Il sogno sarebbe quindi un processo simbolico di elaborazione, interpretazione, riorganizzazione in una sequenza narrativa del materiale accumulato nella memoria durante la veglia. L’ipotesi cognitivista è che il sistema che organizza il sogno sia lo stesso che organizza il linguaggio.

La prospettiva costruttivista, ha ripreso il lavoro sul sogno spostando il focus dai processi di pensiero ai contenuti e portando un maggior contributo centrato sulla dimensione narrativa e sulla costruzione condivisa di significato tra il terapeuta e il paziente: lavorare con i sogni vuol dire quindi attribuire loro un significato, far emergere una narrativa personale al fine di favorire nel paziente la consapevolezza del legame tra i pensieri relativi al sogno, le emozioni provate e le azioni.

In un articolo pubblicato sulla rivista Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale (Vol. 21, n.3, 2015 pp. 285-301) gli autori, dopo aver delineato una breve storia sull’uso del sogno in area cognitiva e sui modelli di lavoro con il sogno in area cognitiva, si soffermano ad analizzare i motivi per i quali può essere utile usare il sogno nel lavoro psicoterapico.

Lavorare sui sogni in psicoterapia può facilitare il processo terapeutico, aumentando il livello di coinvolgimento del paziente nella relazione terapeutica. Può essere utile da parte del terapeuta lavorare sui sogni quando il lavoro terapeutico sembra bloccato: sono gli stessi pazienti a portare in terapia i sogni oppure gli stessi pazienti riferiscono al terapeuta di aver sognato qualcosa di particolarmente interessante, sogni caratterizzati da vissuti emotivi intensi, ritenuti significativi  per il  momento di vita che stanno vivendo. Infatti il sogno può essere un modo per consentire al paziente di avvicinarsi in modo graduale ai contenuti critici mantenendo un certo grado di distanza e protezione, nel caso in cui percepisca come troppo difficile e doloroso toccare quei contenuti fin da subito: ci si avvicina cioè in modo graduale al contenuto temuto.

Inoltre l’uso dei sogni può aiutare i pazienti ad apprendere l’utilizzo dell’immaginazione, può facilitare l’insight del paziente, può fornire al terapeuta importanti informazioni cliniche, ed infine può fornire una misura del cambiamento terapeutico, cioè il cambiamento dei contenuti del sogno può essere indicativo di un cambiamento del percorso terapeutico in termini sia di progressi che di difficoltà e tali cambiamenti possono essere relativi sia agli eventi di vita del paziente che alla relazione terapeutica con i sogni.

Quindi il modello cognitivo comportamentale pone l’enfasi sul qui ed ora della situazione del sognatore e sui processi di elaborazione delle informazioni sottostanti all’atto del sognare. Il lavoro sui sogni ha l’obiettivo di modificare la struttura e il contenuto del sogno per favorire il cambiamento comportamentale e la scomparsa dei sintomi. Il terapeuta suggerisce e incoraggia il paziente a raccogliere il materiale onirico e il tema del sogno può essere legato a dei compiti da svolgere a casa, al di fuori della seduta psicoterapeutica.

Il disturbo dissociativo dell’identità

Quando si parla di personalità multipla, o più correttamente di “disturbo dissociativo dell’identità”, il pensiero vola immediatamente alle rappresentazioni che ci siamo creati di questo fenomeno sulla base di cinema e letteratura.

Emblematico in questo senso “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, celebre romanzo di Stevenson del 1886, successivamente trasposto al cinema, che racconta la storia del Dottor Jekyll, uomo rispettabile e dai buoni principi, e del suo “alter ego” nascosto Mister Hyde, un personaggio violento, malvagio, che si macchia di atroci delitti.

È così che, a partire da qui, lo “sdoppiamento” o “dissociazione” della personalità ha da un lato turbato e dall’altro estremamente affascinato il grande pubblico, che lo considera un fenomeno misterioso, oscuro, inquietante, addirittura fantascientifico.

Ma cos’è davvero?

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità (Dissociative Identity Disorder, DID) è una seria patologia psichica, che si pensa rappresenti il risultato di esperienze di violenza cronica ed estrema subite dalla persona durante l’infanzia. Tale origine di matrice traumaticaè oggi ampliamente riconosciuta, tanto da essere inclusa nella descrizione del disturbo nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5, APA 2013). Non un fenomeno oscuro e soprannaturale quindi, ma una grave e dolorosa condizione di sofferenza psichica.

Caratteristiche del disturbo

  • La caratteristica principale di questa condizione psicopatologica è l’ “interruzione dell’identità”, caratterizzata dalla presenza nella persona di due o più stati di personalità distinti, ognuno con proprie modalità relativamente stabili di percepire, relazionarsi e considerare l’ambiente e il Sé (DSM 5, APA 2013). Tali stati di personalità possono essere connotati da caratteristiche molto diverse, come il nome, l’età, il sesso, il tono di voce, la gestualità, il temperamento, la calligrafia, abilità diverse e memorie autobiografiche diverse. I diversi stati del sé dissociati vengono manifestati alternativamente a seconda degli stimoli provenienti dall’ambiente.

N.B.: Benchè la caratteristica principale del DID sia la presenza di due o più stati di personalità distinti, solo un numero limitato di pazienti manifesta esplicitamente diversi stati del sé. Quando le identità alternative non sono visibili, la dissociazione dell’identità può presentarsi con una discontinuità del senso di sé (DSM 5, APA 2013). Ad esempio i soggetti affetti da DID possono sentirsi depersonalizzati, osservando “dal di fuori” il loro linguaggio e/o le loro azioni (spesso con la sensazione di non avere il potere di fermarsi o controllarle), o derealizzati, relazionandosi a persone care o con l’ambiente come se fossero sconosciuti, strani, non reali. Talvolta possono riportare di sentire i loro corpi “diversi”, come il corpo di un bambino o di una persona del sesso opposto. Inoltre, attitudini e preferenze personali possono improvvisamente modificarsi e poi ritornare quelle precedenti.

  • La seconda caratteristica cardine del disturbo è rappresentata dalle amnesie (perdite di memoria), di portata eccessiva per poter essere spiegate come normali dimenticanze (DSM 5, APA 2013). I pazienti affetti dal DID mostrano tipicamente difficoltà nel ricordare eventi del passato (interi periodi di vita nell’infanzia oppure eventi specifici, come quelli traumatici), ma anche del presente (azioni quotidiane e informazioni personali). Ad esempio, dopo un episodio di amnesia, questi soggetti possono ritrovarsi in posti diversi da quelli ricordati per ultimi e non sapere come vi siano arrivati e il motivo per cui vi si trovano; possono scoprire oggetti o appunti scritti che non riconoscono e non riescono a giustificare; possono non ricordare di aver fatto alcune cose e non sapere come motivare alcuni cambiamenti nel proprio comportamento.
  • Caratteristiche associate: Il soggetto affetto da DID può essere o non essere consapevole delle diverse identità. Talvolta può riferire di udire “conversazioni interiori” tra gli stati di personalità o voci delle altre identità che si rivolgono a lui o ne commentano il comportamento. In generale, l’interscambio tra gli stati del sé e la (relativa) mancanza di consapevolezza del comportamento delle altre identità rende caotica e confusa la vita delle persone che soffrono di questo disturbo, conducendo ad un disagio significativo. Inoltre, nei soggetti affetti da DID sono comuni atti autolesivi, tentativi di suicidio, abuso di sostanze e flashback degli eventi traumatici. Al distubro si accompagnano spesso altri problemi psicopatologici, come depressione, ansia (attacchi di panico), sintomi somatoformi, disturbi alimentari, disturbi del sonno e disfunzioni sessuali (DSM 5, APA 2013).

La dissociazione
Il DID fa parte dei Disturbi Dissociativi, e il meccanismo alla base del disturbo è la dissociazione. La dissociazione si riferisce all’interruzione o discontinuità tra processi psichici solitamente integrati. In particolare, quando un’esperienza viene dissociata, non entra a far parte dell’usuale senso di sé dell’individuo, creando una discontinuità nella consapevolezza cosciente.  Nel DID (il più grave tra i disturbi dissociativi), la mente perde le sue capacità di integrazione a livello della coscienza, della memoria, dell’identità e della percezione, con una frammentazione del soggetto in diversi “stati del Sé” (ISSTD, 2011).


 

 Origine del disturbo

Il modello del trauma

Come già anticipato, il disturbo dissociativo dell’identità è associato a una storia di esperienze traumatiche gravi e prolungate, nella maggior parte dei casi verificatesi durante la prima infanzia (Putnam, 1997; Putnam et al., 1986). Tali esperienze traumatiche possono riguardare abusi fisici, sessuali ed emotivi, esperienze di maltrattamenti e abbandono (Sar, 2011).

Quando i bambini vivono esperienze così estreme, non sono costituzionalmente in grado di sostenerle. Non hanno le capacità di coping e cognitive dall’adulto di comprendere la situazione, valutare ciò che sta loro capitando e ciò che possono fare. Si trovano a sperimentare emozioni di estremo terrore, solitudine, dolore, abbandono e impotenza (Smith, 2007).

Ecco che allora la dissociazione diviene per questi bambini un modo per  ignorare, ottundere, dimenticare: essa permette di compartimentare l’angoscia lontano da loro stessi, portandoli a credere di non stare sperimentando l’abuso, che sta invece capitando “a qualcun altro”. Così, mentre il corpo subisce l’abuso, un bambino può fluttuare fino al soffitto e guardare ciò che sta capitando a “un’altra persona” (cioè ad una parte dissociata del sé, ad un’altra identità) (Smith, 2007).

Allo scopo di sopravvivere in una condizione fortemente ostile, il bambino può creare Sé alternativi con funzioni e ruoli diversi. Ad esempio, un’identità può ospitare i pensieri e le emozioni di impotenza (“l’indifeso”), un’altra gli aspetti fantasiosi (“il creativo”), un’altra le reazioni di rabbia (“il cattivo”), un’altra ancora gli aspetti di adattamento alla realtà (“l’adattato”) (Smith, 2007).

La dissociazione e l’incapsulamento delle esperienze traumatiche (ricordi, affetti, sensazioni, comportamenti intollerabili) in stati comportamentali personificati (cioè rudimentali identità alternative) ha l’effetto di mitigare l’effetto dei traumi sullo sviluppo globale (ISSTD, 2011). Tali processi possono servire a proteggere le relazioni con le figure di accudimento (anche quando queste sono state abusive o inadeguate) e permettere la maturazione in altre aree di sviluppo (ad esempio quella intellettuale, sociale e artistica) (ISSTD, 2011).

Col tempo, tali stati rudimentali del sé vanno incontro ad un processo di strutturazione secondaria, dando vita alle identità alternative tipiche del disturbo (ISSTD, 2011).

Insomma, la dissociazione consente alla persona di canalizzare il dolore entro percorsi che la aiutano nella sopravvivenza, tanto che alcuni autori l’hanno definita un fattore di resilienza evolutiva (Brand et al., 2009). I “compagni” che il soggetto che soffre di DID ha sviluppato nel suo percorso l’hanno aiutato a sopravvivere in una situazione drammatica e ostile (Cozzolino e colleghi). Tuttavia, gli stessi meccanismi attivati dalla mente a scopo difensivo per fronteggiare momenti estremamente dolorosi e travolgenti, divengono successivamente dannosi e patologici per la persona stessa.

Il DID, dunque, non si sviluppa da una mente matura e unificata che “si frantuma”, ma è il risultato del fallimento di una normale integrazione dello sviluppo (ISSTD, 2011).